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Soia geneticamente modificata, il dilemma dell’Europa

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L’Europa ha o non ha bisogno della soia geneticamente modificata (gm)? La domanda è ancora al centro di un dibattito internazionale alimentato, da un lato, da una dichiarazione promossa nello scorso mese di maggio da varie realtà industriali e della grande distribuzione europee per proteggere la produzione di soia non-gm in Brasile, dall’altro dall’annuncio di molte catene di distribuzione britanniche – fra cui anche la diffusissima Tesco – di aver deciso di eliminare il divieto di uso di soia gm nell’alimentazione dei polli utilizzati per produrre uova e pollame distribuito con il loro marchio. Il motivo? Secondo i fornitori alimentare i polli con mangimi non geneticamente modificati non sarebbe solo troppo costoso, ma anche difficile, a causa dell’elevata probabilità che mangimi gm e non-gm finiscano per mescolarsi.

 

Le coltivazioni gm sono, in effetti, sempre più diffuse. A giocare un ruolo fondamentale in questa espansione dell’uso di piante geneticamente modificate sono i vantaggi economici derivanti dalla loro coltivazione. Per questo motivo, ad esempio, il 97% della soia coltivata nell’Iowa appartiene a varietà geneticamente modificate. Di conseguenza, importare soia non-gm è sempre più dispendioso: Hans-Wilhelm Windhorst, esperto dell’Università tedesca di Vechta, spiega che a giugno in Germania il costo aggiuntivo per l’acquisto di soia non-gm si aggirava intorno ai 150 dollari a tonnellata. A ciò si devono aggiungere le difficoltà ad ottenere l’elevata quantità di soia necessaria.


I numeri della soia in Europa
 
Nel 2011 sono state circa 5,8 milioni le tonnellate di soia prodotte in Europa. Di queste, il 69,4% (corrispondente a 4,1 milioni tonnellate) provenivano da Ucraina e Russia  e il 13,5% (795 mila tonnellate) da Austria, Serbia, Romania e Ungheria. Nello stesso anno le importazioni hanno raggiunto quota 11,8 milioni di tonnellate di soia e 21,7 milioni di tonnellate di farina di soia.
Secondo Windhorst nemmeno la Danube Soy Initiative, che promuove la coltivazione della soia non geneticamente modificata nella regione del Danubio, riuscirà a soddisfare le richieste degli allevatori europei. Il suo potenziale è di 5 milioni di tonnellate – il doppio rispetto ai volumi di farina di soia non geneticamente modificata attualmente importati – pari a 4 milioni di tonnellate di farina di soia. Per ottenere questi numeri sarebbe, però, necessario convertire una gran parte dei terreni attualmente coltivati a frumento in campi di soia.
Non solo, anche se dal punto di vista teorico il fabbisogno tedesco potrebbe essere coperto dalla produzione nella regione del Danubio, è anche vero che la soia coltivata in queste zone è destinata soprattutto al consumo umano e che se dovessero decidere di destinare parte di questa produzione all’esportazione anche i Paesi produttori si troverebbero nuovamente costretti ad importare della farina di soia.
Infine, il problema dei costi di produzione: se la soia dell’area del Danubio dovesse risultare più costosa rispetto a quella brasiliana o argentina non riuscirebbe nemmeno ad entrare nel mercato. Per di più  l’industria avicola utilizza solo farina di soia. Ciò renderebbe necessaria la disponibilità di mulini che lavorino anche piccole quantità di soia non-gm sopportando gli elevati costi di manutenzione associati.


 
Le alternative
 
Al momento anche se piselli e lupini trovano spazio nella produzione di cibo per gli animali domestici e mangimi per l’industria ittica, i legumi diversi dalla soia contribuiscono solo marginalmente alla produzione di mangimi per l’avicoltura. Il lupino giallo sarebbe una buona fonte di proteine e anche i piselli, sebbene meno ricchi di proteine, potrebbero trovare spazio nel settore della mangimistica avicola. Tuttavia, sarebbero necessari degli sforzi atti a migliorare la qualità delle proteine fornite da questi legumi.
Anche in questo caso, però, sarebbe necessario destinare ampie aree coltivabili che potrebbero essere dedicate ad altre coltivazioni, come quelle del frumento e della canna da zucchero, alla produzione di piselli e lupini, una scelta che, secondo Windhorst, gli agricoltori potrebbero essere disposti a fare solo in presenza di elevati incentivi economici.
L’unica soluzione plausibile sembra essere continuare a produrre legumi nelle aree in cui la resa delle coltivazioni è massima. “Anche se potrebbe essere possibile raggiungere un volume di produzione di soia di 5 milioni di tonnellate nei Paesi membri della Danube Soya Initiative, bisogna considerare l’impatto che uno sviluppo di questo tipo avrebbe su altre coltivazioni, il tasso di autosufficienza per la richiesta di proteine dalle coltivazioni in questi Paesi e l’evoluzione del prezzo della soia e della farina di soia – ha sottolineato Windhorst – saranno necessarie ulteriori iniziative di ricerca mirate al miglioramento delle rese, della qualità delle proteine e della resistenza alle malattie dei legumi, ma anche la buona volontà da parte delle grandi catena alimentari di pagare prezzi più elevati per animali che sono stati alimentati con farina di soia non-gm”.

 Foto: Pixabay

Silvia Soligon